Persone, non profughi. Lo sguardo di Duley su crisi dei migranti

 

Oltre un milione di rifugiati hanno compiuto un viaggio dal Medio Oriente ai Pesi dell'Est Europa nel 2015. E' questa la storia raccontata da Giles Duley, il fotoreporter inglese che nel 2011 saltò su una mina in Afrganistan perdendo le gambe e un braccio ma continua a lavorare. Duley nell'ottobre 2015 ebbe l'incarico dall'Alto Commissariato Uno per i Rifugiati (Unhcr) di documentare la crisi dei rifugiati. Per sette mesi viaggiò in 14 Paesi dell'Europa dell'Est e del Medio Oriente, dai campi profughi in Iraq, Libano e Giordania, fino alle spiagge della Grecia: ora quel lavoro è raccolto nel libro "Posso solo raccontare quello che i miei occhi vedono", un percorso che Duley racconta al quotidiano arabo Gulf News. "L'Unhcr mi fece un briefing breve ma importante - ricorda Duley - segui il tuo cuore. Quindi cominciai a concentrarmi non sulla crisi nel suo insieme ma sulle singole storie, sapendo che ne avrei potuto cogliere solo alcune, da qui il titolo del libro". Il racconto di Duley parte dalla spiaggia di Lesbo, in Grecia, dove nell'autunno 2015 sbarcarono 5.000 persone. "Ero stato in Angola, Afganistan, Iraq, avevo visto il peggio che l'uomo riesce a esprimere eppure mi ritrovai su quella spiaggia a piangere. Ci misi un o' a capire cosa mi aveva colpito: non avevo mai visto una tale massa di persone muoversi, mettendo a rischio la propria vita, rischiando tutto per la libertà. Nei campi profughi c'è la sofferenza, ma è statica, lì venni travolto dalla paura che vidi nei loro occhi". E non fu il solo. Il fotografo sfata il mito dei reporter indifferenti al dolore: "Non ci fu un solo giornalista o fotografo che non entrò in acqua per aiutare le persone a scendere dalle barche.

Portavamo coperte, in diverse occasioni prendevamo bambini in ipotermia e li mettevamo in auto accendendo l'aria calda: migliaia di persone sbarcavano e non c'era una sola ambulanza vicino a quella spiaggia". Duley racconta anche delle sue scelte stilistiche a partire dall'idea di ritrarre molti migranti su uno sfondo bianco: "Se vedi qualcuno fotografato in un campo profughi - spiega - lo vedi come un rifugiato, io volevo che fossero visti come persone. Nei campi profughi non ho visto persone che speravano o che tiravano pietre come spesso vengono ritratte sui media. Ho visto persone che cercavano di costruire una normalità per sé e per i propri figli. Vedi amore, risate, bambini che giocano, persone che cucinano, è importante che un fotografo documenti questo, perché sono momenti a cui tutti possiamo relazionarci.

In Giordania mi avevano detto che difficilmente avrei ritratto donne, per motivi religiosi. Dopo qualche giorno tre donne mi chiesero una sigaretta ma non volevano che lo sapessero i loro mariti, così andammo dietro ad un palazzo e lì fumarono e risero a lungo". E ripensando al suo lavoro, il fotografo ricorda non solo fli immigrati, ma anche tanti europei: "Uno degli aspetti più incoraggianti di questi ultimi due anni è stato il numero enorme di volontari che ho visto in opera, persone che non l'avevano mai fatti e che sentivano di dover intervenire. A Lesbo incontrai due donne greche che stavano vicino alla spiaggia e abbracciavano ogni bambini che sbarcava. Mi spiegarono che erano esse stesse immigrate, le loro madri erano sbarcate lì tanti anni prima dalla Turchia, 'in ognuno di questi bambini rivediamo le nostre madri', mi dissero.

 

Fonte: ANSAmed