Siria, a Palmira con il figlio del martire del museo: "Difendeva l'arte, così l'hanno ucciso"

 

di ALBERTO STABILE e MOHAMMED AL ASAAD (La Repubblica)

PALMIRA. Nell'aria si respira ancora l'odore della battaglia. Il vento del deserto trasporta il tanfo degli incendi malamente domati, dell'esplosivo usato a piene mani. Le strade sono trappole mortali a causa delle mine lasciate da quelli dell'Is, che gli artificieri russi fanno brillare una a una, sollevando nuvole di fumo nero. Si cammina tra corridoi di macerie. Gruppi di militari siriani si riposano all'ombra dei loro mezzi corazzati: hanno la calma e l'allegria dei vincitori. Palmira è stata liberata. L'armata jihadista s'è ritirata verso Raqqa lasciando sul terreno centinaia di morti. Ma l'eco delle cannonate che risuona nella pianura, sotto le mura della Cittadella, avverte che la guerra sarà ancora lunga.

Palmira è un immenso accampamento di soldati, una città fantasma, dissanguata dalla fuga dei civili sotto l'incalzare dei combattimenti. Nessuno osa tornare in un luogo che la guerra ha reso malsano e pericoloso. E poi tornare a fare cosa? E di che vivere, col turismo, l'unica ricchezza prodotta da questa terra per altri versi arida e ingenerosa, prosciugato da cinque anni di rivolta armata degenerata in un conflitto globale? Una settimana dopo la fine dei combattimenti, si contano i danni, che appaiono imponenti. Basti vedere come è stato ridotto il tempio di Bel, dove la famosa "cella" composta dall'altare per i sacrifici, il sancta sanctorum e le nicchie, ciascuna ricavata da un solo blocco di marmo, è stata fatta saltare, secondo Mahmud, archeologo dilettante tornato in visita sui luoghi che ha studiato per anni, "con 30 tonnellate di esplosivo, dopo due tentativi non riusciti con cariche inferiori di tritolo".

Oppure, basta soffermarsi a metà del lungo colonnato che costeggia per quasi un chilometro l'arteria principale a osservare da vicino le rovine dell'arco di Trionfo costruito alla fine del II Secolo, che gli jihadisti hanno fatto esplodere davanti alla telecamera, per testimoniare al mondo l'ennesima nefandezza compiuta conto la Storia. Così come hanno fatto con il tempio di Baalshamin le cui strutture composte da una miriade di blocchi di marmo, sono state proiettate come schegge impazzite nel raggio di centinaia di metri. Eppure, per quanto profonde siano le ferite inflitte, esse non sembrano tali da incrinare il fascino di un sito tra i più ammirati e amati al mondo. Percorrendone il colonnato, al tramonto, verso l'uscita, nella luce bassa che esalta il colore della pietra e il ricamo delle decorazioni, davanti alla vastità di ciò che rimane intatto, verrebbe da dire che, nonostante le distruzioni, la bellezza di Palmira alla fine è prevalsa, come è già molte volte successo in passato, su questa nuova barbarie.

È comunque un viaggio doloroso quello che comincia dalla piazza del Museo archeologico, centrato ripetutamente da colpi d'artiglieria (qui tutti assicurano che l'aviazione russa ha di proposito evitato di bombardare le zone, come questa, vicine al sito per evitare danni collaterali irreparabili alle vestigia), devastato e saccheggiato. Il salone d'ingresso è completamente ricoperto dai calcinacci caduti dal tetto, travi, mattoni finiti in pezzi, parti d'intonaco. Due voragini si aprono nel pavimento alla sinistra della porta centrale. Ordigni inesplosi piovuti dall'alto. Nella galleria orientale, le lastre usate per sigillare i loculi delle torri funerarie sono state private dei bassorilievi, busti, facce, profili, scene di vita, scolpiti in ricordo dei defunti, e probabilmente destinati al mercato nero dei reperti. Anche la statua della dea Allat (figura mitica apparentemente vicina alla greca Athena), alta tre metri e considerata il pezzo più prezioso della collezione, ha subito lo stesso trattamento: testa e braccia amputate a martellate, ora troneggia come un corpo alieno e irriconoscibile in un mare di macerie.
Alla testa di un gruppo di giovani archeologi venuti da Damasco, Hamed Dib, responsabile del settore museale del ministero della Cultura siriano, sta cercando di fare l'inventario del disastro: "una stima è difficile, abbiamo appena iniziato a tracciare la mappa del sito e l'elenco dei reperti. Quel che posso dire è che per fortuna almeno 400 importanti oggetti sono stati salvati prima che arrivassero i miliziani del Daesh (come viene chiamato lo Stato Islamico nel mondo arabo, ndr) ".

Tra la piccola folla degli addetti ai lavori che si danno da fare per riparare il Museo c'è un uomo che può dire molto su quell'operazione di salvataggio finita in tragedia. Si chiama Mohammed ed è uno dei figli di Khaled al Asaad. l'anziano archeologo ed ex direttore del museo e del sito di Palmira ucciso dagli jihadisti per essersi rifiutato (così è stato scrit- to) di rivelare dove erano state nascoste le statue e gli oggetti preziosi portati via quando si ebbe sentore che gli uomini del Califfato stavano per invadere Palmira. Quarantenne dalla corporatura imponente e dai modi gentili, Mohammed al Asaad si dice toccato dalle manifestazioni di rispetto nei confronti del padre venute dall'Italia. "Per alcuni giorni hanno seminato il terrore. Tutti hanno visto quello che hanno fatto nel teatro antico, le esecuzioni di massa di civili e soldati. All'inizio sembrava che con mio padre non avessero alcun problema. Lo convocarono due o tre volte, per sentirlo nell'ambito di un'inchiesta dicevano, ma sembravano molto contrariati del fatto che nel museo non c'era quello che cercavano: oggetti da vendere al mercato nero e soprattutto l'oro, cercavano l'oro che qui non c'è mai stato". Sta di fatto che a fine luglio, Khaled al Asaad viene preso per la terza volta, ma, contrariamente alle altre volte, a casa non tornerà più. "Ce l'abbiamo noi, lo stiamo interrogando", dicono ai familiari gli uomini del Califfato. Poi più nulla. "Il 18 agosto, dopo 19 giorni di prigionia, mio padre è stato ucciso", racconta Mohammed. "Gli hanno detto d'inginocchiarsi ma lui s'è rifiutato. Poi gli hanno tagliato l'arteria del collo e lo hanno appeso per i piedi lasciando che si dissanguasse a morte". Il cadavere dell'archeologo che parlava l'aramaico e aveva scritto venti libri su Palmira e la "via della seta" venne esposto nella piazza del museo dove gli jihadisti hanno costruito una gabbia per umiliare i prigionieri, al centro di una fontana senza acqua. Mohammed ricorda l'ultimo desiderio del padre: "Chiese di entrare nel museo per l'ultima volta. Voleva respirare l'aria che aveva respirato per 40 anni. Lo fecero entrare a piedi scalzi". E soltanto allora si commuove.

Un blindato con il tricolore russo sulla fiancata sbarra l'accesso al parco archeologico che si apre sulla piazza. Il reparto di artificieri che sta bonificando la città s'è installato nel ristorante del sito. Con modi gentili ma fermi un ufficiale indica al gruppo di visitatori nel quale mi trovo quali strade tra le rovine si possono percorrere e quali sono ancora pericolose. "Hanno minato tutto, pure gli alberi e le piante, non soltanto le strade e gli edifici", dice l'ufficiale che si fa chiamare Viktor. "Ma per noi non è un problema, abbiamo una lunga esperienza in questo tipo di operazioni". In Cecenia, chiedo? "Anche", risponde, tagliando corto. Qui, ma non soltanto qui, sono loro a stabilire le regole. Silenziosi, efficienti, sospettosissimi verso gli stranieri, i soldati russi circondano il loro comandante armati di fucili con il colpo in canna. Siparietto: due giornalisti siriani vorrebbero far volare due droni per riprendere il sito danneggiato dall'alto. Un ufficiale siriano nicchia. Ma Viktor concede: "Droni? Ma certo, perché no?". Anche se Putin ha deciso il ritiro parziale del contingente, i soldati russi parlano e si muovono come se fossero qui per restare.

Bisogna andare nelle viscere del teatro romano, un gioiello rimasto miracolosamente intatto, per scoprire tracce del passaggio degli uomini del Califfato: coperte, materassi di gomma piuma, resti di cibo e scritte sui muri. All'ingresso del tempio di Bel hanno dato sfogo all'ironia: "Non è possibile entrare senza il permesso dello Stato Islamico". E ancora: "È vietato l'ingresso ai Fratelli (musulmani) e ai civili". E ancora, seriosamente: "Rimanere ed espandersi". Ci sono volute tre settimane di violenti combattimenti perché la sicumera dei soldati del Califfato sbiadisse in una precipitosa ritirata. L'apporto dell'aviazione russa contro un nemico privo dell'arma aerea è stato decisivo. Ma gli jihadisti hanno mostrato ancora una volta che la morte in battaglia non li spaventa: 700 i loro morti, contro una sessantina di siriani. Se si sono ritirati verso la loro capitale, Raqqa, lasciando Palmira, è perché da Kobane in poi, hanno capito che non vale la pena sacrificare molti uomini nella difesa
di posizioni fisse, quando le stese forze possono essere usate in operazioni mordi e fuggi, non meno devastanti. Ma sono lì attorno, sulla strada che porta a Deir Ezzor, una città che per loro rappresenta il confine con l'Iraq, paese dove la loro avventura è cominciata.